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La leggenda racconta che l'estate del 1966 fu così torrida da indurre disc jockey, musicisti e ballerini a rallentare il ritmo: cominciava la breve ma intensa fiammata del rock steady, più lento e ammiccante rispetto allo ska. Comunque siano andate le cose, la nuova moda sfornò canzoni da brivido, con Sam Cooke e Otis Redding diretti ispiratori dei gorgheggi sensuali di Alton Ellis, Ken Boothe, Delroy Wilson, Melodians, Technoqùes, Gayads, Ethiopians. Si era aperta la strada per il reggae vero e proprio, la cui comparsa avvenne nel 1968 con il titolo di una canzone dei Maytals: Do The Reggay. Il reggae non fu soltanto un nuovo stile: il suo avvento nelle strade di Kingston coincise con la sempre maggiore identificazione tra la musica e il messaggio contenuto nella dottrina "rastafarian", in breve "rasta", creata da Marcus Garvey, un predicatore giamaicano divenuto celebre negli anni '20 negli Stati Uniti. La sua profezia dell'avvento di un re nero (individuato in Hailé Selassié I, sovrano etiope esule a Londra), destinato a richiamare in Africa i discendenti degli schiavi deportati, aveva cominciato a sedurre i giovani dell'isola proprio in concomitanza con la nascita dei sound system e dello ska; ma sino alla fine degli anni '60 i due ambiti erano rimasti (con poche eccezioni) separati: da una parte la musica, destinata all'intrattenimento, dall'altra la spiritualità rasta. Un filo di collegamento è la marijuana, adoperata tanto dai ragazzi delle dancehall quanto dai praticanti con i capelli raccolti nei classici dreadlocks per facilitare sia il contatto con il creatore, Jah, sia la sublimazione dei problemi di tutti i giorni. Alcuni musicisti erano già praticanti, ma con l'avvento di gruppi come The Ethiopians e The Abissinian e con la comparsa dei temi spirituali e sociali nelle canzoni di Jimmy Cliff e Dennis Brown il reggae divenne la voce del ghetto giamaicano, fino a trasformarsi nella bandiera ideali di tutti i ghetti del mondo.

Il grande salto di qualità e di immaginario si verificò tra la fine degli anni '60 e la metà del decennio successivo, quando la genialità di produttori come King Tubby, Bunny Lee, Rupie Edwards, Niney Holness e Lee Perry accese l' epopea del dub, l'evocativo suono che con l'abuso di echi artigianali e le selvagge forzature su basso e batteria avrebbe condizionato il futuro di tutta la dance music internazionale. Le versioni si prestavano agli interventi dei dj, sia per radio che nei system, e così personaggi come U-Roy,Dennis Al Capone, Scotty, I-Roy, Big Youth, Dillinger, Trinity e Tappa Zuckie crearono le premesse per il futuro rap statunitense. Nel frattempo era entrato in azione l'ariete destinato a sfondare il portone dello show business internazionale: Bob Marley e i suoi Wailers, dopo aver macinato successi sulla scena locale, pubblicavano nel 1973 CATCH A FIRE, dimostrando che, nonostante alcune concessioni al suono europeo, il reggae poteva conquistare il pubblico del rock e del soul e costruire album di alto profilo, in luogo delle balneari raccolte di singoli fino a quel momento approdate nel Nord del mondo. Consapevoli di tali mezzi e spinti verso l'alto dal ciclone Marley, molti musicisti, cantanti e produttori giamaicani conobbero gloria internazionale tra il 1973 e il 1981. I nomi di Black Uhuru, The Mighty Diamonds, Wailing Souls, Burning Spear, Culture, Gregory Isaacs, Jirnmy Cliff, Sugar Minott, Freddie McGregor, Dennis Brown, Max Romeo, Sly Dunbar & Robbie Shakespeare e le nuove carriere soliste di Peter Tosh e Bunny Wailer, usciti dai Wailers, fecero sponda sull'Inghilterra per rimbalzare nel resto dell'Europa, negli Stati Uniti, in Sudamerica, in Giappone. E nella Grande Madre Africa, dove l’orgoglio nero delle nuove generazioni trovava nei fratelli giamaicani esempi da imitare. Scene reggae importanti nacquero così in Gran Bretagna, dove il poeta di origine caraibica Linton Kwesi Johnson, le giovani band Aswad, Steel Pulse, Misty In Roots e UB40 e il movimento dello ska revival (guidato da Madness, Specials, Selecter e Beat) flirtavano, a fine anni '70, con un movimento punk attento alla musica di Kingston: Lee Perry lavorò con i Clash, i Ruts scrissero Jah War, Johnny Rotten fu protagonista di uno storico viaggio iniziatico in Giamaica. Ma sound system nacquero anche nelle periferie nere di Francia, scene locali si attivarono in Africa, dove i sogni di libertà si accingevano a dare la spallata finale ai rimasugli del colonialismo, mentre in Brasile il terreno di coltura più fertile si rivelò il mondo del samba. Fu il momento di maggior gloria per il reggae giamaicano, che aveva in Black Uhuru, Mighty Diamonds, Culture, Congos, Wailing Souls, Toots & The Maytals, Burning Spear, Dennis Brown, Sugar Minott, Gregory Isaacs, Max Romeo, Freddie McGregor, Peter Tosh, Bunny Wailer, U-Roy, Augustus Pablo stelle in grado di competere alla pari sul mercato del rock mondiale.

Ma la Giamaica era pur sempre un Paese ad alta tensione sociale, e proprio mentre la sua musica ne diffondeva ritmo e spiritualità, era lacerata da una cruenta lotta politica e dal vertiginoso aumento del tasso di criminalità. La povertà purtroppo gioca brutti scherzi e le campagne elettorali di fine anni '70 si conclusero a più riprese in bagni di sangue per gli scontri tra i sostenitori dei due schieramenti, con Marley e Tosh costretti a intervenire di persona in qualità di garanti di un'ancora balbuziente democrazia. In una nazione in buona parte analfabeta, le pantomime dei dj (il termine identifica colui che parla a ritmo su una base, mentre l'operatore alle prese con giradischi e mixer si chiama selecter) sostituivano le cronache dei giornali: Michigan & Smiley, Eek-A-Mouse, Lone Ranger, Tappa Zuckie, Doctor Alimantado, Prince Far I (ucciso nel 1983) e i veterani U~Roy, Prince Jazzbo e Dillinger divennero così i cronisti di quanto accadeva ogni giorno per strada, e spesso i loro 45 giri venivano stampati e distribuiti già poche ore dopo l'avvenimento trattato. L'immaginario dell'isola continuava intanto a tritare tutto ciò che arrivava dagli Stati Uniti e a rileggerlo con geniale creatività locale: i gangster americani, gli attori di Hollywood, il kung fu cinese hanno lasciato tracce davvero gustose nella storia del reggae.

Il giorno 11 maggio 1981 il destino decide di far uscire dalla scena il personaggio più forte di tutto il romanzo: con la scomparsa di Bob Marley, ucciso da un tumore, tutto l'ambiente piomba nello sconcerto. Lo show business si lancia alla ricerca del suo erede, ma ogni tentativo sarà vano: non certo per demerito dei vari Dennis Brown, Frankie Paul, Barrington Levy, Maxi Priest, Junior Reid, Cocoa Tea o Garnett Silk (anch'egli, peraltro, prematuramente scomparso), né del figlio  più noto di Bob, Ziggy, indicati ora l'uno ora l'altro come reincarnazioni del Maestro, bensì per le forzature e le troppe responsabilità caricate sulle loro spalle. Ma la vita continua, e nella prima metà degli anni '80 reggae in Giamaica significa sempre più sound system. Una nuova generazione di assi del microfono spadroneggia nella dance hall: si chiamano Yellowman, Tiger, Admiral Bailey e propongono testi arroventati all'incrocio tra sesso esplicito, rivolta sociale e cronaca pura, mentre le voci di Junior Delgado, Johnnie Osbourne, Tenor Saw e Sanchez e di vecchie conoscenze come Gregory Isaacs e Sugar Minott contrappuntano le loro pantomime con suadenti melodie soul. Lo spazio per i gruppi si restringe sempre più e all'appuntamento con i ritmi digitali il reggae si presenta, nel 1984, come una faccenda in mano a produttori, a pochi e stakanovisti musicisti di studio, a dj e cantanti. King Jammy, Steelie & Cleavie, Augustus "Gussie" Clarke, Donovan Germain, Xterminator, Junjo Lawes, sono gli assi del mixer, che governano in equilibrio tra mutazioni digitali dei ritmi classici e attenzione al lavoro emergente dei colleghi americani seduti nelle cabine di regia dell'hip hop. Il risultato della trasformazione esplode nel 1986 con l'avvento del raggamuffin, che nello slang di Kingston significa "straccione". È lo stile aggressivo con cui Half Pint, Papa San, Supercat, JC Lodge, Cobra, Ninjaman, Shabba Ranks, Cutty Ranks, Lieutenant Stitchie,Little Lenny, Lady Saw traghettano la musica giamaicana verso gli anni '90, con risultati a volte considerevoli anche a livello internazionale, complici le ripetute collaborazioni con le celebrità del rap statunitense.

Ogni ritmo importante vede cimentarsi decine di dj e cantanti, mentre argomenti forti come il tragico passaggio dell'uragano Gilbert, nel 1988, possono riempire anche oltre cento singoli di artisti diversi. Purtroppo però la promiscuità non è sempre costruttiva: dalla scena hip hop il raggamuffin finisce presto per assorbire anche gli aspetti meno edificanti, e a partire da fine anni ’80 una vera e propria mania per armi da fuoco, crack e monili d’oro investe l'isola, provocando un'ondata in perfetto stile gangster che costa la vita anche ad artisti come Tenor Saw, Pan Head e Dirtsman, mentre le droghe pesanti danneggiano pesantemente le carriere di molti loro colleghi. Il reggae consapevole perde colpi di fronte all'aggressività delle nuove leve ma non cessa di esistere. Burning Spear, Bunny Wailer, Peter Tosh (assassinato in casa da un rapinatore l'11 settembre 1987), Inner Circle, Israel Vibration, Steel Pulse continuano a produrre dischi e a intraprendere tournée, ma per loro è molto più facile rapportarsi al mercato internazionale che al burrascoso ambiente della dance hall, dove invece attivisti come Sugar Minott, Marcia Griffiths, Augustus Pablo, Beres Hammond e Tony Rebel tengono duro, tentando di incrociare i temi sociali e il respiro spirituale con le modalità d'assalto dei sound system. Una scommessa che pare perduta in partenza e che invece si dimostrerà avveduta. A metà anni '90 il ricambio generazionale porta alla ribalta nuovi produttori, come Bobby Digital, Dave Kellye Shocking Vibes. Anche il parco delle voci si allarga con l'arrivo dei ruggenti Buju Banton, Beenie Man, Bounty Killer, Capleton, Spragga Benz, Terror Fabulous, Sizzla, e dei melodici Luciano, Wayne Wonder, Chaka Demus & Pliers, Everton Blendel, Anthony B, Bushman. Partiti quasi tutti sull'onda del raggamuffin più sboccato (slackness), dell'omofobia e dell'elogio della violenza, gli appartenenti alla nuova generazione respirano nella seconda metà del decennio l'aria di ritorno alla spiritualità (in verità con tinte integraliste talora preoccupanti e oscurantiste) che investe sempre più giovani giamaicani. Tra conversioni, rilancio di temi legati allo stile "roots" degli anni '70 e creazione di etichette di esplicita vocazione culturale, il reggae sembra aver ritrovato diritto di cittadinanza nel mosaico mondiale della musica di protesta, mentre una fioritura di ristampe senza precedenti sta riportando alla luce gioielli ingiustamente dimenticati.

Una buona introduzione alla storia del reggae e della jamaican music in generale, può essere costituita dall'ascolto del cofanetto pubblicato dalla Island in occasione del suo trentesimo anno di attività:

TOUGHER THAN TOUGH: THE STORY OF JAMAICAN MUSIC ( Island, 1993, 4 CD )

REGGAE PARTY MIX

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