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I Cure sono stati tra le band più importanti degli anni '80 e di tutto il panorama musicale contemporaneo. Autori di un rock raffinato, emozionale, ansioso, depresso ed epico, sono stati i pionieri del gothic sound, che hanno saputo trasformare in un fenomeno di massa

“Uccidere un arabo” e trovare una “Cura”: la filosofia esistenzialista e l’assurdo di Albert Camus.

Sul finire degli anni 70’, la rivolta punk brucia le sue ultime ceneri: dal vento che mulinella basso, a livello di terra, nascono tre ragazzi immaginari. Robert Smith, il leader e singer, avrebbe dovuto essere scrittore, avrebbe voluto morire prima dei venticinque. Non accadde: bisogna trovare una Cura. Nascono i Cure. Dell’inverno 1978 è “Killing an arab”, il primo singolo del gruppo, formato, oltre che da Bob Smith, voce e chitarra, dall’enigmatico Lol Tolhurst alle percussioni e dall’estemporaneo Michael Dempsey al basso. I riferimenti diretti sono allo Straniero di Camus, ma i più, ignari, la scambiano per una canzone razzista. I Cure smentiscono e dovranno smentire ancora.

Per la storica Fiction uscì nel 1979 il primo album “Three Imaginary Boys”: elettrico, confuso, romantico e spontaneo, come una lite tra Bowie e Eno. La critica lo trovò un disco ancora acerbo, in cui confluivano sperimentazioni tra psichedelia, rabbia pop e convulsioni hendrixiane, senza alcun legame con il resto della produzione. L’anno successivo si vide l’ingresso nella band di Simon Gallup, a scapito di Dempsey, e mentre Robert Smith trovò anche il tempo per suonare la chitarra dal vivo con Siouxsie and The Banshees, vide la luce “Seventeen Seconds”, un breve viaggio nei recessi di mondi immaginari cupi senza essere tristi, dove la voce di Smith si fa lamento magnetico e le chitarre sembrano strozzare ogni anelito. “Boys don’t Cry” e “A Forest” sono i singoli di questo periodo: la canzone più famosa del gruppo, la prima, richiama a un tempo i pensieri di Saint-Exupery sull’infanzia e il nostro ever-green tempo delle mele, la seconda porta, col suo basso monotono e grave e i suoi toni alla fase propriamente dark del gruppo.

Con “Faith”, memoriale, (1981) e “Pornography” (1982), nichilista e disperato, si aprì e si chiuse la fase più cupa della storia del gruppo.

I Cure arrivarono veramente lontano. Toccarono con mano il profondo.Tra abuso di droghe, concerti (non) terminati in lacrime e depressioni nervose il gruppo si sfaldò: dopo una lite tra Gallup e Smith, alla fine del 82’ il gruppo è apparentemente sciolto.

All’inizio del 83’ ci sono ancora i Cure, ma non sono più i Cure, così almeno la pensano ì fedelissimi e la critica specializzata: è la svolta pop. Robert e Lol, nel frattempo passano alle tastiere, alle chitarre giapponesi, alle voci dolciastre e agli ammiccamenti ai disimpegnati anni 80 facendo comparire i primi sinth. E allora senza metterci la serietà dei New Order ecco al pubblico, che non ne può più di battaglie e tristezze, in perfetto stile surrealista: “Japanese Whispers” (1983), “The Top” (1984), oltre a “Concert: The Cure Live” (1984) e a “The Head on the door” (1985) che sembrano cercare la formula del buonumore e con esse la band ottenne il suo primo grande successo commerciale al quale quasi per inerzia seguì la prima raccolta di singoli: “Standing on the beach- The Singles 1978-1985 (1986) ”.

Con l’uscita del doppio Lp “Kiss me Kiss me Kiss me” (1987), tra effusioni di tenerezza, languide serenate di amore onirico, in cui si svolgono inni alla bellezza fattasi vento, I Cure dichiararono il loro lussureggiante decadentismo, la storia diventò poesia e la paura si tramutò in ricordo. Come Kiss Me è sole e vento, così Disintegration (1989) è luna e nuvole.

Con gli anni 90’ ebbe iniziò la fase discendente di un gruppo le cui affermazioni di un possibile scioglimento divennero una barzelletta: Tolhurst abbandonò la band, arrivò l’unplugged a Mtv, tornò Gallup e uscirono “Mixed Up” (1990), raccolta di remix, “Wish” (1992), che alternava toccanti ballate nostalgiche a danze elettrizzanti,“Wild Mood Flop” (1996), un brutto assemblaggio di ritmi latineggianti, tutto acustica e ottimismo e infine “Bloodflowers” (2000) dall’esito controverso essendo sbilanciato tra desideri electro e ricadute soft-acustiche. L’inizio del secolo registra la fase archivio-vivente dei Cure: stanchezza, colpi di reni e versioni superdeluxe: “Greatest Hits” (2001), “Join the Dots b-sides and rarities” (2004) e “The Cure” (2004) prodotto dal guru del metal Ross Robinson.

Attualmente i Cure stanno per uscire con il loro tredicesimo album.

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