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I Blur sono stati il gruppo che tra successi e flop ha segnato gli anni 90 col suo perfetto equilibrio tra gusto melodico e tentazioni sperimentali. I Blur sono stati la band più calameontica della scena brit pop, in anticipo su tutti quando ancora il genere non era esploso ed i primi a portarlo alla ribalta con il loro suono che traeva spunto dal post punk, dai Kinks e dai Clash, da Bowie e dai Beatles. I Blur nascono a Londra nel 1989 e sono fra i fondatori del Britpop insieme ai Suede, ai Supergrass e successivamente agli Oasis. Le loro prime produzioni da “Leisure” (’91) a “The Great Escape” (’95) sono state influenzate dal genere Mod, che venne adottato dal gruppo sia a livello musicale sia a livello estetico, ma dall’omonimo album “Blur” del ‘97 il sound della band assunse toni più new wave e dark che caratterizzeranno anche i successivi “13” e “Think Tank”.Il cantante Damon Albarn darà vita in seguito ad un progetto parallelo che riscuoterà molto successo, i Gorillaz.

 

 

L’esordio Leisure (1991) mostra una formazione che parte da Post-Punk, Pop, Psichedelia sessantiana ed inflessioni Mod, vagando fra Who, Kinks, Byrds. L’album scade spesso in episodi di Pop ritrito ma almeno She’s So High, giostra psichedelica di riverberi eterei, e There’s No Other Way, accattivante ed incalzante Pop/Rock danzereccio valgono l’attenzione che si concede ad un nuovo fenomeno Pop/Rock importante. La psichedelia dilaga su Sing, inebetita e prolissa deriva lisergica ma si avverte spesso, ad esempio anche in Fool. Il Rock degli anni ’90, quello fragoroso e chiassoso, svetta in Slow Down e Wear Me Down, mentre gli Who si affacciano in Come Togheter. Spesso si scade in Pop/Rock ballabili un po’ vacui e molto sessantiani come High Cool, Bang, Bad Day.

 

 

Modern Life Is Rubbish (1992) continua con i numeri sessantiani, partendo dagli archi di For Tomorrow, ma sfoggia anche più chitarre e più Rock, come in Advert. Alla fine si tratta spesso di Pop/Rock, magari “futuristico” con voci robotiche come quello di Colin Zeal o corrivo e bubble-gum come quello di Star Shaped e Villa Roise, con punte di radiofonica leggerezza in Coping, venata di synhts retrò. Turn It Up è forse il meglio nell’ambito più strettamente Pop/Rock, ma vale poco di più di un ritornello di media classifica qualsiasi. Il meglio arriva con Chemical World/Intermission, prima motivetto sixties psichedelico, poi cabaret pianistico un po’ decadente e deficiente con miasmi lisergici. Sunday Sunday scansa il rischio di un revival Pop-psichedelico Beatles-iano con qualche grammo di irruenza aggiuntiva. La psichedelia si dilunga fino a lambire territori Shoegaze in Oily Water richiamando, all’opposto, Barrett in Miss America, ma in entrambi i casi il risultato è mediocre. Debole anche Resigned, altro Pop con rintocchi psichedelici, ed il Pop/Rock un po’ rumoroso di Pressure on Julian, che diluisce un ritornello sixties in troppe parti d’acqua. La lamentosa Blue Jeans, anch’essa in echi psichedelici e richiami Folk/Rock, è un’altro momento che aggiunge poco alla sostanza dell’album. Un secondo album che avvicina la band ai canoni del Brit-Pop che loro stesso contribuiscono a creare ma che affoga spesso in un esercizio di revival psichedelico poco originale, venato di richiami a Who, Kinks, XTC, Barrett, Byrds ma che difficilmente presenta qualche sintesi davvero interessante, perdendosi anzi in molti momenti minori.

 

 

Il salto di qualità giunge con Parklife (1994), album variegato che in pratica pesca a piene mani da numerosi stili dagli anni ’60 ai loro contemporanei. Questa sorta di tour-de-force stilistico si apre con Girls & Boys, Elettro-Pop da discoteca in stile Human League ed uno dei brani più orecchiabili e dei ritornelli più riusciti della discografia. Il Power-Pop per arrangiamenti stravaganti è probabilmente il modello più diffuso nell’album, è trova il vertice nella title-track, motivetto sixties con parlato in forte accento cockney, ricordando fortemente i Kinks. L’irruenza Punk/Hardcore e demenziale di Bank Holiday aggiunge un altro tassello al mosaico. Altro tassello è quello del bandismo rilassato in The Debt Collector, vagamente jazzata. Una orchestrazione esotica anni ’60 avvolge To The End, smaccatamente revival. Barrett spunta prepotentemente in Far Out, Folk psichedelico un po’ derivativo, ma che contribuisce a quello che sembra essere la logica dell’opera nel complesso: una panoramica su generi disparati della musica inglese degli ultimi trent’anni. Così la New-Wave più demenziale e danzereccia non poteva essere trascurata, serve qualcosa come la simpatica London Loves, refrain orecchiabile che però potrebbe essere stato scritto dieci anni prima. Un Rock avvolto di sintetizzatori, altezza Devo, viene rievocato da Trouble at the Message Center. Un Folk meno Barrett-iano viene rappresentato in Clover Over Dover, con un clavicembalo incantato che ne fa uno dei brani mgiliori dell’opera. Un appeal Pop-Metal-Glam fra T Rex e Kiss prende le redini del discorso in Jubilee. Lot 105 chiude l’opera con una danza demenziale per coretti, vagamente esotica e vagamente Punk. Durante questo lungo viaggio la formazione riesce però anche a sparpagliare episodi minori: Tracy Jacks è una pappa Beatles-iana troppe volte riscaldata; End Of A Century ha una melodia melodrammatica, ma anche lei affoga in atmosfere sessantiane già ampiamente sfruttate, con cori stucchevoli e risentiti; la soffusa Bedhead si ferma poco oltre, in un Pop arrangiato per cori e tanta malinconia; Magic America è di nuovo Barrett, ma il refrain è debole ed i sintetizzatori non riscattano il tutto; This Is A Low è una drammatica nenia Pop prolissa (5 min.), lamentosa e priva del brio e della fantasia dei momenti migliori dell’album. Nel complesso l’album è comunque un interessante panoramica stilistica, anche se fondamentalmente trova il suo limite nel non inventare praticamente nulla di nuovo: vagando fra Post-Punk, Punk, Rock, Glam, Mod, Psichedelia, Folk e fascinazioni bandistiche ed orchestrali Parklife restituisce un nutrito ventaglio di stili ma, in ognuno, non riesce a trovare chiavi di lettura originali. Gli arrangiamenti ed una ironia di fondo rendono l’opera più scorrevole ma qualche taglio alla tracklist e qualche goccia di carisma in più nelle varie revocazioni di Barrett, Kinks, Beatles ecc. avrebbe giovato ad un album che, così, rimane un mosaico di stili soprattutto passati e soprattutto già abbastanza risaputi. Ad ogni modo, in questo spirito influenzato dal Glam, dai sixties e dai suoni più immediati del Post-Punk si può trovare un esempio di Brit Pop più valido di quello dei cugini e rivali Oasis.

 

 

The Great Escape (1995) continua sulla scia di Parklife, ripetendolo con meno efficacia. Due episodi sono piccoli gioielli Pop: Stereotypes, fra schitarrate energiche e Hammond violento; Charmless Man, demenziale ed energica come da copione Power-Pop. Il resto dell’album viaggia fra il passabile ed il mediocre. Country House rievoca un Cat Stevens più festoso, Globe Alone un Punk-Pop tanto irruento quanto poco originale. Fade Away si fregia di un arrangiamento fra Reggae e fiati alquanto stravagante, doppiato dall’arrangiamento fantasioso di Top Man. Proprio gli arrangiamenti, spesso, sorreggono brani non proprio brillanti (e.g. Mrs. Robinson’ Quango, He Tought Of Cars). Episodi come la soporifera e lamentosa Best Days; il Pop Spector-iano di The Universal; un Pop usa-e-getta di It Could Be You; la psichedelia caracollante e vagamente Pink Floyd-iana di Ernold Same; il Grunge-Pop effimero di Dan Abnormal; il refrain mediocre di Entertain Me sono tutti momenti da dimenticare velocemente. Yuko And Hiro, anche lei ingioiellata dall’arrangiamento, è un Pop sessantiano ritrito e psichedelico che conclude un’opera che meritava di essere un buon EP di 3-4 canzoni.

 

 

Un secondo cambio di sound si ha con Blur (1997), album più ruvido, rumoroso, tagliente e decisamente Rock. La melodia per chitarre fragorose di Beetlebum ricorda certi Built To Spill e Song 2, uno dei loro brani maggiori, è un assalto di Rock rumorosissimo che ricorda Sonic Youth, le distorsioni devastanti dello Stoner ed una Pop-song con ritornello-filastrocca. Una partenza bruciante, a cui segue il lo-fi di moderno Folk/Country di Country Sad Ballad Man. Segue un richiamo di Bowie su M.O.R., sempre avvolta di attacchi rumorosi. On Your Own è un Hip-Hop elettronico con motivetti canticchiabili. L’album continua a variare con l’oscura Theme From Retro, il lo-fi Folk/Rock di You’re So Great, il Trip-Hop sporco di Death Of A Party, il Punk fragorosissimo di Chinese Bombs, il passo paludoso dell’Hip-Hop/Trip-Hop anemico di I’m Just A Killer For Your Love ed la ballata curata negli arrangiamenti di Look Inside America. Tutta l’opera è intarsiata di suoni che provengono dal Noise-Rock, dal Trip-Hop, dall’Hip-Hop e dall’Elettronica degli anni ’90. Quando rievoca il Folk ed il Folk/Rock lo fa in una veste lo-fi e psichedelica. Il richiamo prinicipale è al Rock senza confini degli anni ’90, come in Movin’ On, piena di assoli iper-effettati e loop. Essex Dogs (6 min.) rievoca persino i Neu in un motorik ipnotico, pieno di Kraut rumoroso e di rumore psichedelico, svettando come uno dei brani migliori della discografia. Blur è una sorta di nuovo Parklife, più orientato verso la musica degli anni ’90 (Noise-Rock, Grunge, Neo-Psichedelia, Hip-Hop, Trip-Hop, lo-fi). Tranne qualche ricordo di Bowie e qualche sfumature Beatles-iana in Beetlebum, dell’immaginario sixties è rimasto poco e questo permette di considerare l’album una sorta di nuovo percorso. I Blur possono fregiarsi di aver cambiato stile compositivo e riferimenti musicali almeno due volte, facendo corrispondere questi cambiamenti con due opere magari non perfette ma degne di attenzione e rispetto..

 

 

L’allontanamento dal Pop si conclude con 13 (1999), ormai in pieni territori del Rock alternativo. Il collage sonoro è da tributarsi anche alla produzione di William Orbit, che spesso sembra aver impresso ai brani un appeal di imponente esercizio digitale, una saturazione caratteristica che attraversa tutta l’opera. Anche le durate delle canzoni sono cambiate completamente, così la tracklist supera adesso in 3 casi i sette minuti e mezzo. Tender (quasi 8 minuti) è un Gospel con passo ipnotico e chitarre in sottofondo costruiscono un jamming soffuso ed è forse il momento migliore dell’opera. Il Pop è ormai un fantasma che aleggia sotto strati di rumore come in Bugman e che si palesa solo in Coffee & Tv, ballata un po’ superflua. Il Blues deforme di Swamp Song è una versione orecchiabile degli US Maple che merita citazione solo perchè fatta da un gruppo che era “Pop”. 1992 riporta in luce Kraut ed psichedelia ma senza grande originalità. Il difetto principale dell’opera sta nella prolissità diffusa e in un accatastarsi di effetti e rumori che spesso diventa un caos deliberato un po’ stucchevole (B.L.U.R.E.M.I). Si consideri Battle (quasi 8 min.), che è un Dub umbratile e psichedelico e rumoroso con squarci melodici tirato avanti per 2-3 minuti di troppo o ancora Caramel Song, che indugia tre minuti all’inizio prima di elaborare un affascinante allucinazione Trip-Hop/psichedelica con spunti tribali e perdersi di nuovo nel dispersivo finale. Non mancano neanche brani che meriterebbero proprio di essere scartati, come Mellow Song, Folk lo-fi che in quattro minuti dice molto poco o Trimm Trabb, due minuti iniziale deboli e poi stereotipi di Noise-Rock. La palma di brani peggiore tocca probabilmente a No Distance Left To Run, Slo-Core soporifero e risaputo. Puro filler Optigan 1, nel finale. Trailerpark vive praticamente dei suoni ricercati che utilizza e dei contrasti fra rumori e melodie, ben rappresentando l’anima un po’ confusa dell’opera. L’album dura 67 minuti ma contiene forse 15 minuti di idee, sviluppate in modo pasticciato, indugiando rumorismi e saturazioni sonore che richiamano il Rock indipendente americano a più riprese. Non è tutto da buttare, ma Parklife e Blur rimangono su un altro livello.

 

 

Think Thank (2003) è un’altro mix di stili eterogeneo ma anche questa volta confuso ed a tratti prolisso. Si ricorda Ambulance, rumorosa e jazzata e la notturna Out Of Time, Pop etnico trasognato che rimane uno dei loro momenti migliori in assoluto. Curioso ed affascinante Blues/Hardcore assordante di We’ve Got a File on You, con sfumature etniche e persino un momento da muezzin (!). Gene By Gene è una musica caraibica almeno strana, a cui va la palma di massima stravaganza del disco. Niente male anche il ballabile Punk/Funk con assalti rumorosi di Battery In Your Leg. Il fastuono di effetti e rumori di Crazy Beat suona invece ritrito, il relax di Good Song banale, l’Elettronica di On the Way to the Club molto prodotta ma non troppo carismatica. Scorrono anche Brothers and Sisters, e l’anemica Caravan. La fascinazione etnica suona meno intrigante in Moroccan Peoples Revolutionary Bowls Club ma è meglio della ninna-nanna psichedelica risaputa di Sweet Song. Prolisso invece il Funk di Jets, con un finale Jazz abbastanza “free”. L’opera deve fronteggiare la dipartita del chitarrista e lo fa sfruttando elettronica, fascinazioni etniche, nuove influenze stilistiche. Un album che scade un po’ nel melenso e nell’iper-prodotto a tratti, ma che riesce anche in numerosi numeri che meritano di essere ricordati.

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